lunedì 4 settembre 2017

TRE



Quella stronza di Sara non la voleva smettere di telefonarmi. Il cellulare squillava ininterrottamente dalla notte prima. Avevo messo il tono silenzioso e osservavo il display illuminarsi e spegnersi per poi illuminarsi e spegnersi di nuovo.
Le persone che hanno tempo da perdere in questo modo mi fanno semplicemente pena. Persino lei. Proprio per questo non avevo spento il cellulare: volevo torturarla e farle capire che così sembra solo una psicopatica.
Donne.
Credo che un giorno i loro comportamenti mi faranno diventare misogino.
Mi avvicinai al piccolo specchio che tenevo appeso sul muro dietro la porta della mia stanza. Credo che uno specchio a mezzo busto non mi basti più, meglio uno a figura intera. Sono un esteta e sono anche vanitoso. Molto. Penso sempre di essere nato nell’epoca sbagliata e molte persone me lo dicono spesso.
Mi passo una mano fra i capelli. Sono troppo ricci, troppo lunghi, nerissimi. Non li taglio da un paio di mesi ormai, credo sia giunta ora di andare dal barbiere.
Ma alle ragazze piacciono molto. D’altronde mi piace moltissimo quando me li carezzano, quando ci giocano, quando li annusano. E’ davvero intrigante.
Meglio non tagliarli, allora, vorrà dire che li pettinerò diversamente.
Prendo il dopobarba dal mobile lì accanto. Con la coda dell’occhio vedo il telefono che ancora lampeggia.
Torno allo specchio. Svito il tappo del flacone, che capovolgo delicatamente su indice e medio della mano sinistra. Poche gocce di dopobarba mi bagnano le mani. Passo le dita dietro le orecchie, poi leggermente sul viso liscio, fresco di rasatura.
Non smetto di guardarmi allo specchio. Mi piaccio. Richiudo il flacone e lo ripongo al suo posto. Il telefono lampeggia.
Mi trovo dimagrito, lo stress della sessione estiva mi ha tolto appetito e tonicità. Ma d’altronde studiare è importante e il mio fisico non è poi così male: slanciato, regolare, attraente. Appesa alla maniglia della porta c’è una camicia di cotone bianco, semplice. La indosso. Forse fa troppo caldo per le camicie a maniche lunghe, ma lo stile non conosce stagione. E le camicie mi stanno da dio. Chiudo i bottoni dei polsini, non riesco a distogliere lo sguardo dalla mia immagine.
E’ sabato sera e voglio fare conquiste. Anzi, sono sicuro che ne farò, come al solito.
La luce del display del cellulare appare prepotentemente non appena mi volto verso il mobiletto alla mia destra. Non ti salverò, Sara. Va’ a rompere le scatole a quel cazzone del tuo ragazzo. Stasera non ci sono per questo posto, non ci sono per te né per le altre persone di merda. Questa sera non è la solita sera.
Sara, tu sei stata qualcosa di platonico.
Mi sistemo meglio la camicia, mi aggiusto i pantaloni neri e attillati, indosso delle scarpe stringate nere. Prendo il telefono che, esasperato, continua a lampeggiare.
Stasera non ci sono.
Cammino fino al letto, pochi passi. Mi sento potente, affascinante. Butto il cellulare sul materasso, Me ne vado. Sono potente.
Stasera non sono lo stesso Alessio.
Voglio vivere nella convenzione del sabato sera, non importa se io sono il nemico delle convenzioni. Non importa se odio i sabato sera.
La mia Panda è parcheggiata proprio sotto casa. Ho un rapporto di amore-odio con lei, regalo inizialmente non gradito, fattomi dai miei per il conseguimento della patente. Non si confà esattamente al mio aspetto né al mio modo di essere, tuttavia, al momento devo accontentarmi. Ho solo vent’anni, c’è tempo per le auto. Quando farò i soldi, allora sì che mi sbizzarrirò. L’ingegnere e il suo bolide. Sì.
La mia Panda ne ha viste di tutti i colori e ne vedrà di sicuro di altre. Spero che questa sera ci entri una donna assieme a me. Non mi piace molto portarle lì dentro, a dire il vero, e non solo perché fare sesso in macchina è davvero scomodo, ma anche perché nonostante mi piaccia fare conquiste, lasciarle entrare nella mia macchina -una piccola parte del mio mondo- è fin troppo intimo.
Sistemo meglio il sedile guidatore e lo specchietto retrovisore, ne approfitto anche per darmi un’ultima occhiata soddisfatta. Sbottono giusto i primi due bottoni della camicia. Mi sento potente. Sono potente.
Metto in moto. Non so cosa mi riserverà quella notte ma sono pronto a tutto.

Persino i locali più in voga avevano qualcosa di squallido. Ingresso 20 euro, due free drink, musica orribile tutta la notte. Persone ubriache che fanno finta di divertirsi, o forse si divertono davvero, chissà.
Anche io da ubriaco mi scateno facilmente. Peccato che stasera devo guidare. Sorseggio il più lentamente possibile il mio Cuba Libre, il cocktail meno peggio di tutti, appoggiato con la schiena al bancone. Il sapore dell’alcol mi inebria il palato: ma quanto rum ci hanno messo?
Mezzanotte, il locare è pieno.
Con piacere noto che la maggioranza è composta da donne.
Donne nella media, con i loro vestitini sexy, i trampoli ai piedi, i capelli sciolti, il bicchiere in una mano. Un sorso di Cuba Libre.
Donne che ballano tra di loro, da sole, che si strusciano addosso a uomini. Mi passo la lingua sul palato.
Donne che ridono, che tirano sensualmente i capelli all’indietro, che ballano ad occhi chiusi lasciandosi trasportare dalla musica.
Un altro sorso.
Donne. La pelle in bella mostra, pelle abbronzata, tatuata, profumata, liscia.
Donne. Mi passo la lingua sulle labbra. Il sapore forte di rum.
Troppe donne. Nell’aria c’è odore di feromoni. Mi sento elettrico.
Ultimo, lungo sorso al mio stupido cocktail. Poggio il bicchiere sul bancone e lo sguardo verso la pista. Una ragazza dai lunghi capelli rossi, ricci e selvaggi. Un vestito nero che lascia poco all’immaginazione, le gambe lunghe.
La guardo, mi guarda. Ha il viso di una vera donna, la sicurezza che traspare dai suoi occhi verdi, le lentiggini, la bocca grande dalle labbra carnose.
C’è elettricità. Le vado incontro. Non c’è nulla di platonico.
Stasera non sono il solito Alessio.

martedì 12 maggio 2015

Stasi

Non c'è nulla da fare. Più l'estate si avvicina e più c'è stasi.
Non c'è nulla da dire. Questo posto è sempre più piatto, sempre più squallido. Non c'è dove andare né ci sono cose da dire. Si aspetta.
Si aspettano persone, cose, occasioni, momenti, soldi, parole. Si aspetta un po' di pioggia che rinfreschi questa primavera infernale.
Stasi. Sembra tutto fermo, ma le cose fanno un rumore assordante, fastidioso.
Quando mi sento sola, esco. Vorrei chiamare qualcuno, ma se questo fantomatico qualcuno ha altro per la testa? La vita, anche se ferma, è un qualcosa d'impegnativo.
Quando mi sento sola, allora scappo da me stessa. Scappare è il modo migliore per stare bene. Piccole fughe, lunghe fughe. Non importa.
Scappo al sole. Il mare luccica e dondola piano. Voglia di scappare. 31 gradi i primi di Maggio. Questa estate sarà rovente. La testa gira per il troppo sole. Il sole mi fa male, il sole mi fa bene. Il medico consiglia passeggiate al sole, respirare aria di mare. Qua il mare è troppo inquinato, così inquinato che il solo passare in sua prossimità mi mette addosso la paura di poter inalare chissà cosa. La testa gira quando cammino sotto il sole. Non ho nemmeno voglia di camminare, parlare, uscire. Starei di continuo chiusa nella mia stanza, stesa sul letto.
Penso. Sono stanca di pensare, mi sembra solo una tortura. Fra poco si tornerà ai seggi. Io di politica non ci ho mai capito nulla, e per quanto ci provi, nulla mi sembra chiaro. Per me la politica è uno dei grandi interrogativi della vita. Chissà se la capirò mai. Ciò mi pesa. Capire la politica mi renderebbe forse migliore, o peggiore. Quello che ho capito è che la politica è uno dei motivi di qualsivoglia scontro. Mia madre dice che ogni qual volta una persona apre bocca allora fa politica, anche se non sta parlando di politica. Anche questo concetto non mi è chiaro.
La verità è che la politica mi ha sempre attratto. Come si dice? Siamo attratti da cose completamente differenti da noi? A volte ho persino fatto ricerche su Internet a tema politica, ricerche inutili perché non hanno fatto altro che confondermi le idee.
Capire qualcosa di politica è uno dei sogni della mia vita. Magari un giorno riuscirò a realizzarlo.
Chissà la gente che opinioni ha su di me. Sicuramente si fermano all'apparenza creata dal colore dei miei capelli. Per le persone, le bionde sono belle ma stupide all'ennesima potenza. Agli uomini piacciono le bionde perché la donna presumibilmente scema è la loro preferita. Almeno è ciò che ho riscontrato, anche se alcuni non lo ammettono.
Le mie amiche più intelligenti e brillanti sono bionde. Le mie amiche bionde sono un'eccezione?  Gli stereotipi andrebbero vietati dalla legge.
A volte vorrei essere cinica. Ma credo troppo nelle persone anche se non sono (o meglio, siamo) poi chissà che cosa.
Perché le persone smettono di parlarsi? Perché le persone che hanno condiviso bei momenti, emozioni o solo ricordi piacevoli poi iniziano ad ignorarsi solo perché sanno che non ce ne saranno più? Entrambe sanno e sentono bene la presenza dell'altro, ma il solo scambiarsi uno sguardo è reato. Orribile. Le persone.
A volte credo che essere cinica mi porterebbe a scrivere cose interessanti. Forse essere cinica mi farebbe capire la politica. Voglio essere cinica.

giovedì 30 aprile 2015

Perdersi

Quando vivevo a Düsseldorf, la mia attività preferita era il perdermi nella città. Non quel perdersi romantico nel senso di girovagare senza meta e ritrovarsi in luoghi sconosciuti, ma quel perdersi dettato dall'avere un senso dell'orientamento di merda.
Eppure a Düsseldorf è quasi impossibile perdersi. Ci sono così tante fermate del tram e a quasi ogni angolo della città che se ti perdi sei scemo.
Osservare la città dai finestrini del tram è interessante. Le persone non ti fissano né ti rivolgono la parola. E' bello prendere il tram in Germania.
Quella volta che mi persi nel quartiere giapponese fu perché non sapevo che ci fossero fermate del tram ogni dieci passi o non capivo quali fossero le fermate del tram.
Ci ho messo quattro mesi per trovare il coraggio di provare a parlare tedesco senza cedere alla tentazione dell'inglese. Il tedesco è troppo difficile ma ha un suono davvero melodioso. Sembra quasi il canto di una sirena.
Il quartiere giapponese è ricco. I ristoranti sono costosi, i bar eleganti, gli hotel a cinque stelle. Le strade sono ordinate, pulite ed essenziali. Le piante e gli alberelli sui marciapiedi sono graziosi. Non ci sono tedeschi per strada. O meglio, i tedeschi hanno gli occhi a mandorla.
Il quartiere giapponese è il mio preferito. Erik mi ci portò la prima volta quando non ero in città da nemmeno 24 ore. Insistette tanto per mostrarmelo perché era lì che aveva incontrato quella che sarebbe poi diventata sua moglie nonché madre dei suoi figli. Gli occhi di Erik brillavano troppo mentre parlava della moglie. I miei occhi avrebbero mai brillato in quel modo?
Il quartiere giapponese si trova proprio dietro la stazione centrale di Düsseldorf. Come ho fatto allora a perdermi? Erik e la moglie risero quando glielo raccontai. Loro due ridono sempre. Sono talmente felici ed innamorati da sembrare finti. Si sono visti la prima volta in un ristorante giapponese. Si sono conosciuti su un sito d'incontri. Adesso hanno due figli biondissimi, una casa con giardino, una macchina, una figlioccia tinta di un biondo finto. Erik ama così tanto sua moglie da sembrare un adolescente.
Quella volta al quartiere giapponese ci andammo a piedi. Forse per questo non so dove fermano i tram. Non guardai la strada, mi fidai di lui mentre ascoltavo della sua perfetta storia d'amore. Lo invidiavo tantissimo. Pensavo a G., alle sue camicie di merda, ai capelli ricci e ai nostri baci mentre stavamo appoggiati alla ringhiera del lungomare. Pensavo a Luca, al mio collo martoriato dai suoi succhiotti, a quel film che non finimmo di vedere perché nel suo letto faceva troppo caldo. Pensavo che io dell'amore non ci avrei mai capito nulla.
Erik era un alieno. Gli affitti nel quartiere giapponese dovevano essere altissimi. Erik mi disse che Düsseldorf era un posto costoso dove vivere e che era il sogno suo e della moglie comprare casa lì. Non riuscivano a trovare un appartamento ad un prezzo ragionevole. Chissà se in vita mia avrò mai un appartamento o qualcuno vicino con cui sognare una vita ideale.
Quando mi persi a Düsseldorf non ebbi paura. Per fortuna la maggior parte dei tedeschi sa parlare inglese. In Germania -e forse nel resto del mondo- si stupiscono quando incontrano un italiano che conosce l'inglese. Chissà quante volte mi è stato detto che sono un'italiana atipica solo per questo. Ma com'è allora un italiano tipico? Tra l'altro il mio inglese non è sto granché.
I tedeschi conoscono l'inglese ma odiano parlarlo; se ti sforzi di parlare tedesco allora loro sono contenti e fieri.
Per quattro mesi ho avuto paura di parlare in tedesco, per quattro mesi ho avuto paura di fare amicizia. In Germania non hai bisogno di parlare tedesco. E nemmeno di avere amici. In Germania un modo per riempire le giornate lo si trova sempre, anche se vuoi stare da solo, anche se vuoi stare in silenzio. In Germania le persone ti ascoltano sempre e ti guardano negli occhi. Non ti sorridono spesso, però. I tedeschi non hanno senso dell'umorismo. Non capiscono le battute e se succede, le capiscono a scoppio ritardato.
Non ho mai visto un tedesco ridere a crepapelle, da sobrio. Tranne quando raccontai ad Erik e alla moglie che mi ero persa.







3-4-2015

martedì 28 aprile 2015

Mancanze

Tieni il piede sulla frizione, metti in moto, dai un po' di gas, metti la marcia, togli il freno a mano, metti la freccia, alza pian piano il piede dalla frizione, tieni bene il volante...
Ci sono cose che non capisco, e quando finalmente riesco a capirle, non riesco a farle. La macchina si spegne appena inizio a togliere il piede dalla frizione. Giro la chiave. Manca qualcosa. Mancano cose da fare, mancano cose alla mia vita che non so se si devono fare, mancano cose che non so se si possono fare, mancano cose che voglio fare. Metto di nuovo in moto e di nuovo l'auto si spegne. Eppure tengo la frizione ancora premuta.
Manca qualcuno. Mancano persone che voglio vedere, persone che non voglio vedere, persone di cui ho bisogno, persone che devo ancora incontrare. Mancanze improvvise.
Manca un equilibrio che non ho mai avuto, una sicurezza che è sempre stata utopica, manca del tempo anche se il tempo è troppo.
Metto in moto, il piede ben saldo sulla frizione, marcia innestata, tolgo il freno a mano, rimetto la freccia. Pian piano premo sempre meno sulla frizione e accelero un pochino. L'auto parte. Tengo per bene il volante. Mancanza di esperienza alla guida, mancanza di coraggio.
Vado dritta, vado piano, a 20 km orari in una strada dissestata dove tutti corrono troppo.
Guardo lo specchietto retrovisore, guardo avanti a me : le auto che sono dietro di me suonano il clacson e mi sorpassano. Tolgo il piede dalla frizione, inclino leggermente il volante verso sinistra. non voglio finire sul marciapiede come mio solito. La macchina va, sono emozionata. Premo leggermente l'acceleratore, 30 km orari eppure mi sembra di volare, ho il terrore.
Cambio la marcia.
Mancanze. Mi manca il sangue freddo, la voglia d'imparare, la voglia di rischiare.
Freno. Ogni volta che non mi sento sicura lo faccio. Le altre macchine mi superano velocemente.
Mancanza di certezze, di stimoli, di passatempi. Mancanze trovate su questa strada extraurbana così rotta e triste. Mancanze come fantasmi. Mancanze concrete, mancanze astratte. Manca il freddo quando fa tanto caldo, manca l'estate quando è inverno.
Metto di nuovo in moto. Non c'è nessuno in arrivo dietro di me. Tento di girare nella direzione opposta.
Manca la sicurezza. Mancanze fisiche. Mancanza di spazio.
Non arriva nessuno, nemmeno dal senso opposto.
Mancanza di direzione.
Giro il volante come se ci giocassi. La manovra riesce con successo. D'altronde non avevo altra scelta. La fortuna del principiante. I motori per me sono come le persone: difficili ed incomprensibili.
Mancanza di empatia?
La strada è ancora sgombra. Guidare mi fa paura perché non mi fido di me stessa né delle altre persone. E' come affidare la propria vita ad un ammasso di metallo e vetro. E alla follia della gente.
Mancanza di fiducia. Mancanze.
Fa caldo. Ecco delle macchine che sopraggiungono. Dietro però non c'è nessuno. Vado piano. Ho tempo, ma non troppo. 30 km all'ora, 20 km all'ora. Corro. Il tempo corre.
C'è il sole. Presto arriverà l'estate. Il solo pensiero mi fa impazzire.
Manca il freddo. Manca nascondermi sotto strati e strati di vestiti, manca scomparire.
Ci sono cose che non capisco. Cose che non percepisco.
Le mani sono salde al volante, gli occhi si muovono tra la strada e lo specchietto, ho i pensieri altrove, come sempre. Che fare? Fare finta di niente? Mi sono stufata di far finta di niente.
Poi a che serve?
Guardo la strada, guardo lo specchietto sopra la mia testa; ancora nessuno dietro. Penso che nei film guidare sembra così facile. A loro basta girare il volante senza un senso, come in un gioco.
Penso a tutt'altro per non pensare alle persone. Penso che non mi concentro abbastanza nella guida. Sono pericolosa.
Penso alle promesse mai rispettate, alle ore passate in macchine altrui, alle canzoni cantate ad alta voce, ai pettegolezzi, ai baci, alle risate. Penso che le persone non sanno essere sincere.
Cambio la marcia. Sto correndo troppo? Non capisco.
Mancanze. Mancanza di affetto.
Penso che dovrei smetterla di elemosinare i sentimenti e le attenzioni delle persone. Penso, penso, penso.
Accosto e spengo la macchina.
Penso che non so guidare.



23-04-2015

sabato 25 aprile 2015

Situazioni

Urlai, non so se di piacere, di disperazione o rassegnazione. Lui mi baciò forte per coprire le grida. Poi si staccò e si distese accanto a me, respirando profondamente. Teneva la sua mano sinistra sulla mia gamba destra e me l'accarezzava piano.
Girò la testa verso di me, mi sorrise. «Bel film, vero?» io annuii, spaesata.
Pensai che il suo viso era molto dolce in quel momento, ma non era quello che volevo. Era come se G. si trovasse seduto ai piedi del letto e ci stesse guardando. Qualunque fosse stato il suo sguardo, non importava. Era quello che volevo.
In quel momento avrei potuto gridare il suo nome, anche se era fuori luogo. D'altronde sono una persona perennemente fuori luogo. Avrei potuto farlo, ma le mie urla non erano dedicate a lui, e non erano provocate da lui, anche se avrei voluto, anche se ci pensavo. Le mie urla erano senza valore, senza piacere, senza amore. Quanto odiavo Luca, quanto odiavo le sue mani, quanto odiavo G. che non era lì, che non ci sarebbe mai stato. Quanto mi mancava G.
G. mi ha fatto sentire come la sua Vergine Maria personale, Luca invece come la più sporca e stupida delle puttane. Eppure perché allora era Luca quello che mi cercava? Forse non avevo capito nulla o il destino stava facendo un altro dei suoi stupidi giochetti?
Perché ci prendevamo in giro in quel modo?

giovedì 23 aprile 2015

Punti di vista

Tu sei un 'attore', io una 'scrittrice'.
Chi ha mentito? Chi sta mentendo ora?

martedì 21 aprile 2015

Sbagliare

Mi  ripromettevo ogni volta che non sarebbe accaduto di nuovo. E puntualmente cedevo. Luca era fuoco vivo fra le mie braccia. Ma non bruciava, semplicemente ero io a bruciare con lui. Non riuscivamo a non toccarci quando ci trovavamo nello stesso spazio fisico. Eravamo come magneti. Era ancora con me, sempre stretto a me, con le sue mani a cingermi i fianchi e le labbra fuse alle mie. Sembrava che quello fosse il suo posto.
Eppure quella vita mi faceva  schifo. Era squallida, monotona, inconcludente. Era tutto quello che non volevo, eppure sembrava fosse quello che mi meritassi.
Sono sempre stata bravissima a fuggire e credevo di aver trovato la via d'uscita definitiva. Invece i problemi mi rincorrevano veloci, sempre più veloci, sempre più arrabbiati e vendicativi. Come Luca quella sera, deciso a farmela pagare per essere andata via, per averlo lasciato in balia della sua stupidità, o di qualsiasi altra cosa. 
Il copione non cambiava mai: mentre ero lì, come una bambola nelle sue mani, combattevo con la voglia di farlo mio e con il pensiero di G.
G. era riapparso poco tempo prima, come suo solito improvvisamente. L'avevo cercato per giorni e giorni dopo essere tornata, ma sembrava nascosto chissà dove.
Poi eccolo: magrissimo, con i capelli più ricci e lunghi, la barba appena accennata, gli occhi sembravano quasi nascosti. Niente più pantaloni attillati, scarpe eleganti, brutte camicie. Sembrava un normalissimo ragazzo di diciannove anni. Tutto ciò che amavo di lui non lo vedevo più. Eppure era la stessa persona. 
Il mio cuore smise di battere nel momento stesso della sua apparizione. Riusciva a fermare il mio mondo e scombussolarlo totalmente.
Tutto ciò che avevo immaginato in quei lunghi mesi era ormai distrutto, proprio come il mio cuore, che giorno dopo giorno si riduceva in pezzi sempre più piccoli. Avvertivo la pesantezza e il rumore di quei cocci. La sentivo soprattutto il momento che Luca mi prese in braccio, tenendo le mani ben ancorate al mio sedere, e cominciò a camminare sulla spiaggia morbida, facendo attenzione a non inciampare. Eppure io volevo cadere, cadere giù e sprofondare nella sabbia. Sempre più giù, come se fosse possibile, come se me lo meritassi. Volevo staccarmi da quell'abbraccio demoniaco perché non era di quello che avevo bisogno, non era quello che volevo. Cosa volevo? Di cosa avevo bisogno?