Quella stronza di Sara non la voleva smettere di telefonarmi. Il cellulare squillava ininterrottamente dalla notte prima. Avevo messo il tono silenzioso e osservavo il display illuminarsi e spegnersi per poi illuminarsi e spegnersi di nuovo.
Le persone che hanno tempo da perdere in questo modo mi fanno semplicemente pena. Persino lei. Proprio per questo non avevo spento il cellulare: volevo torturarla e farle capire che così sembra solo una psicopatica.
Donne.
Credo che un giorno i loro comportamenti mi faranno diventare misogino.
Mi avvicinai al piccolo specchio che tenevo appeso sul muro dietro la porta della mia stanza. Credo che uno specchio a mezzo busto non mi basti più, meglio uno a figura intera. Sono un esteta e sono anche vanitoso. Molto. Penso sempre di essere nato nell’epoca sbagliata e molte persone me lo dicono spesso.
Mi passo una mano fra i capelli. Sono troppo ricci, troppo lunghi, nerissimi. Non li taglio da un paio di mesi ormai, credo sia giunta ora di andare dal barbiere.
Ma alle ragazze piacciono molto. D’altronde mi piace moltissimo quando me li carezzano, quando ci giocano, quando li annusano. E’ davvero intrigante.
Meglio non tagliarli, allora, vorrà dire che li pettinerò diversamente.
Prendo il dopobarba dal mobile lì accanto. Con la coda dell’occhio vedo il telefono che ancora lampeggia.
Torno allo specchio. Svito il tappo del flacone, che capovolgo delicatamente su indice e medio della mano sinistra. Poche gocce di dopobarba mi bagnano le mani. Passo le dita dietro le orecchie, poi leggermente sul viso liscio, fresco di rasatura.
Non smetto di guardarmi allo specchio. Mi piaccio. Richiudo il flacone e lo ripongo al suo posto. Il telefono lampeggia.
Mi trovo dimagrito, lo stress della sessione estiva mi ha tolto appetito e tonicità. Ma d’altronde studiare è importante e il mio fisico non è poi così male: slanciato, regolare, attraente. Appesa alla maniglia della porta c’è una camicia di cotone bianco, semplice. La indosso. Forse fa troppo caldo per le camicie a maniche lunghe, ma lo stile non conosce stagione. E le camicie mi stanno da dio. Chiudo i bottoni dei polsini, non riesco a distogliere lo sguardo dalla mia immagine.
E’ sabato sera e voglio fare conquiste. Anzi, sono sicuro che ne farò, come al solito.
La luce del display del cellulare appare prepotentemente non appena mi volto verso il mobiletto alla mia destra. Non ti salverò, Sara. Va’ a rompere le scatole a quel cazzone del tuo ragazzo. Stasera non ci sono per questo posto, non ci sono per te né per le altre persone di merda. Questa sera non è la solita sera.
Sara, tu sei stata qualcosa di platonico.
Mi sistemo meglio la camicia, mi aggiusto i pantaloni neri e attillati, indosso delle scarpe stringate nere. Prendo il telefono che, esasperato, continua a lampeggiare.
Stasera non ci sono.
Cammino fino al letto, pochi passi. Mi sento potente, affascinante. Butto il cellulare sul materasso, Me ne vado. Sono potente.
Stasera non sono lo stesso Alessio.
Voglio vivere nella convenzione del sabato sera, non importa se io sono il nemico delle convenzioni. Non importa se odio i sabato sera.
La mia Panda è parcheggiata proprio sotto casa. Ho un rapporto di amore-odio con lei, regalo inizialmente non gradito, fattomi dai miei per il conseguimento della patente. Non si confà esattamente al mio aspetto né al mio modo di essere, tuttavia, al momento devo accontentarmi. Ho solo vent’anni, c’è tempo per le auto. Quando farò i soldi, allora sì che mi sbizzarrirò. L’ingegnere e il suo bolide. Sì.
La mia Panda ne ha viste di tutti i colori e ne vedrà di sicuro di altre. Spero che questa sera ci entri una donna assieme a me. Non mi piace molto portarle lì dentro, a dire il vero, e non solo perché fare sesso in macchina è davvero scomodo, ma anche perché nonostante mi piaccia fare conquiste, lasciarle entrare nella mia macchina -una piccola parte del mio mondo- è fin troppo intimo.
Sistemo meglio il sedile guidatore e lo specchietto retrovisore, ne approfitto anche per darmi un’ultima occhiata soddisfatta. Sbottono giusto i primi due bottoni della camicia. Mi sento potente. Sono potente.
Metto in moto. Non so cosa mi riserverà quella notte ma sono pronto a tutto.
Persino i locali più in voga avevano qualcosa di squallido. Ingresso 20 euro, due free drink, musica orribile tutta la notte. Persone ubriache che fanno finta di divertirsi, o forse si divertono davvero, chissà.
Anche io da ubriaco mi scateno facilmente. Peccato che stasera devo guidare. Sorseggio il più lentamente possibile il mio Cuba Libre, il cocktail meno peggio di tutti, appoggiato con la schiena al bancone. Il sapore dell’alcol mi inebria il palato: ma quanto rum ci hanno messo?
Mezzanotte, il locare è pieno.
Con piacere noto che la maggioranza è composta da donne.
Donne nella media, con i loro vestitini sexy, i trampoli ai piedi, i capelli sciolti, il bicchiere in una mano. Un sorso di Cuba Libre.
Donne che ballano tra di loro, da sole, che si strusciano addosso a uomini. Mi passo la lingua sul palato.
Donne che ridono, che tirano sensualmente i capelli all’indietro, che ballano ad occhi chiusi lasciandosi trasportare dalla musica.
Un altro sorso.
Donne. La pelle in bella mostra, pelle abbronzata, tatuata, profumata, liscia.
Donne. Mi passo la lingua sulle labbra. Il sapore forte di rum.
Troppe donne. Nell’aria c’è odore di feromoni. Mi sento elettrico.
Ultimo, lungo sorso al mio stupido cocktail. Poggio il bicchiere sul bancone e lo sguardo verso la pista. Una ragazza dai lunghi capelli rossi, ricci e selvaggi. Un vestito nero che lascia poco all’immaginazione, le gambe lunghe.
La guardo, mi guarda. Ha il viso di una vera donna, la sicurezza che traspare dai suoi occhi verdi, le lentiggini, la bocca grande dalle labbra carnose.
C’è elettricità. Le vado incontro. Non c’è nulla di platonico.
Stasera non sono il solito Alessio.